Una lettera del beato all’amico Francois Lallier ci fa riflettere sui punti cardine del carisma vincenziano.

Estratto da “Il cuore ha sete di infinito” – a cura di Maurizio Ceste

Estratto da “Il cuore ha sete di infinito”

Lettere scelte di Federico Ozanam – Volume I

a cura di Maurizio Ceste

A Fracois Lallier

Lione, 17 maggio 1838

Ozanam rievoca i legami di amicizia che si sono formati a seguito della fondazione della Conferenza di carità. Manifesta poi la sua preoccupazione per le condizioni della madre e ricorda ancora con nostalgia il padre, mentre fa trasparire le prime avvisaglie della sua salute malferma. Lamenta la stagnazione della sua pratica per la candidatura alla cattedra di diritto e la difficoltà di terminare la sua opera su Dante, in quanto a Lione mancano le persone che potrebbero seguirlo e consigliarlo. Chiede precisazioni su un avvenimento che ha coinvolto la San Vincenzo a Parigi, dove, come a Lione, la Società non sta godendo di simpatie né da parte della gerarchia ecclesiastica né da parte della borghesia cattolica e apostrofa con parole ironiche e sferzanti coloro che stanno ostacolando la diffusione della Società. Passa quindi a ragionare su san Vincenzo de Paoli come patrono della Società, sotto la cui guida occorre porsi per essere ispirati dalle sue visioni anticipatrici dei bisogni della società. Aggiorna infine l’amico sulla nuvoa struttura della Conferenza di Lione ed elenca diversi sugerimenti miranti a una migliore organizzazione della San Vincenzo in vista della prossima pubblicazione del nuovo regolamento.

Mio caro amico,

la vostra preziosa lettera del giorno di Pasqua sollecitava da tanto tempo una risposta. Il resoconto di poche righe che ho appena ricevuto da voi non lascerebbe scuse al mio silenzio. O piuttosto il bisogno che sempre provo di comunicare con voi si ridesta più vivo man mano che i motivi di colloquio si moltiplicano; bisogna bene che le occupazioni più importune cedano e fano posto per alcune ore ai doveri dell’amicizia.

Poiché vi assicuro, ha detto bene Lamache, e voi lo ringrazierete per me, queste amicizie formatesi sotto gli auspici della fede e della carità, in una duplice fraternità di discussioni religiose e di benefiche opere, lungi dall’intiepidirsi a causa di un’assenza prolungata, in qualche modo si raccolgono e si condensano; esse si nutrono di ricordi, e voi sapete che il ricordo abbellisce tutte le cose, idealizza le realtà, purifica le immagini e conserva più volentieri le impressioni dolci che le emozioni penose. Anche tutte queste umili scene della nostra vita di studenti, quando ritornano dalla penombra del passato, hanno per me un fascino inesprimibile: le riunioni della sera alle conferenze del signor Gerbet, che avevano un po’ il prestigio del mistero, e nelle quali avvennero i nostri primi incontri; quelle lotte storiche, filosofiche, nelle quali portavamo il nostro schietto ardore, dove si mettevano in comune i successi con grande passione, le piccole assemblee di rue du Petit Bourbon Saint-Sulpice, la prima delle quali ebbe luogo nel mese di maggio, checché ne dica Lamache, ed io ci tengo, doveste pure considerarmi superstizioso; e quella memorabile serata in cui assistemmo come spie al saluto d’addio dell’Accademia di Saint-Hyacinthe e ritornammo senza indugio a redigere la petizione a monsignore; e quella visita improvvisata alla quale ci recammo tremando, in cui sostenemmo un così duro assalto, e donde uscimmo così commossi; e i primi inizi di Lacordaire a Stanislas, e i suoi trionfi di Notre-Dame, che noi consideravamo un po’ i nostri, e la redazione della “Revue européenne” nel salotto del signor Bailly, e le vicissitudini della Società di San Vincenzo de Paoli, quella famosa seduta dell’ultimo di dicembre 1834 in cui si discusse la divisione, e Le Taillandier piangeva, dove Laperrière ed io ci trattammo duramente e si finì con un abbraccio più amichevole che mai, scambiandoci gli auguri di buon anno per l’indomani. Quindi i cenoni della notte di Natale, le processioni della festa del Corpus Domini, le rose di macchia che sbocciavano così belle sulla strada di Nanterre, le reliquie di san Vincenzo de Paoli portate sulle nostre spalle a Clichy, e poi i tanti buoni servizi che ci siamo scambiati, le tante volte che il cuore troppo pieno di fervore si apriva in conversazioni che la compiacenza di uno permetteva all’altro di rendere lunghe; i consigli, gli esempi, le lacrime segrete versate ai piedi degli altari, quandi ci si trovava insieme, e che alla pietà di molti suscitava una pia gelosia; infine le passeggiate intorno ai lillà del Luxembourg, o sulla piaza di Saint-Etienne-du-Mont, quando il chiaro di luna ne disegnava così bene i tre grandi edifici. Tutto ciò, mio caro amico, diventa per me come lo sfondo del quadro delle mie idee; tutto ciò getta una luce dolce e un po’ triste sulla mia attuale esistenza, che perde molto al confronto. Credo veramente di capire come la storia si trasforma per lo spirito umano in poesia perché i popoli conservano con un attaccamento tanto filiale le loro tradizioni. Ho così la mia età dell’oro, i miei tempi favolosi, la mia mitologia, se voi lo permettete; poiché la favola nevessariamente vi si confonde, non foss’altro che cancellando tutte le cose triviali in mezzo alle quali si trovavano confuse quelle di cui ho conservato la memoria. Ma quel che è vero, quel che è più serio, quel che ha messo le radici più profonde non soltanto nell’immaginazione, ma fino in fondo al cuore, sono gli affetti che si sono formati durante quel periodo della vita. Ne ho trovato la prova in me stesso quando due perdite recenti, quella di Serre e quella di de La Noue, mi hanno fatto versare più lacrime che non altre persone più capaci di strapparmene. Ne ho tutti i giorni una nuova sicurezza, allorché mi giunge una vostra lettera, qualche articolo di Lamache in un giornale, qualche notizia da Le Taillandier, da Pessonneaux o da altri simili; ciò mi fa dimenticare tutte le inquietudini del tempo presente e, se non fosse ridicolo usare questa espressione a venticinque anni, direi: tutto ciò mi ringiovanisce.

Mi sento, in effetti, un po’ invecchiato in tutti i modi dal giorno della nostra ultima separazione: era il 15 maggio di un anno fa, mio caro amico, quando voi, conoscendo la disgrazia che io ignoravo, mi conducevate a quella carrozza che mi portava via, figlio sconsolato e doveva lasciarmi qui orfano. Da allora ho vissuto, o piuttosto prego Dio che consideri tale il mio stato; non ho fatto che un lungo sogno? Non voglio ripetervi tutte le angosce, voi le conoscete.

Ma esse non sono affatto finite. Il periodo di Pasqua, che è anche quello del cambio di stagione, è stata una prova terribile per la salute di mia madre; l’ho vista per quindici giorni sotto la minaccia di un attacco di apoplessia. Una miriade di medicine abilmente somministrate dal nostro amico Arthaud ce l’hanno salvata; ma siamo stati avvertiti di temere il peggio per l’autunno; l’avvenire, che è il luogo comune delle speranze, è per noi il punto in cui si riuniscono tutte le paure. Ella ripete spesso che il successo delle mie pratiche per il professorato prolungherebbe i suoi giorni, ed io non so se quest’ultimo mezzo per tenerla aggrappata alla vita mi sarà concesso. Da ormai due mesi il Consiglio municipale non si occupa più di presentare i candidati, e ho motivo di temere che questo ritardo sia l’effetto di una manovra di uno dei miei rivali che vorrebbe far slittare la presentazione al periodo delle ferie, al momento in cui molti dei consiglieri che mi sono più favorevoli saranno in campagna; e i deputati che s’interessano a me a Parigi rientrati nelle loro province. Ho tuttavia compiuto nuovi passi da cui ho motivo di attendermi un migliore risultato. Ciò nonostante non posso ancora precisare il periodo in cui i candidati saranno designati, né di conseguenza quello in cui partirò per Parigi, e Dio sa se vorrei che fosse presto! A queste preoccupazioni dominanti, altre se ne aggiungono meno gravi, ma spesso penose e l’insieme delle quali da qualche settimana ha agito spiacevolmente sul mio temperamento. Nessun malanno serio, ma un susseguirsi di piccole moleste indisposizioni. Da qui un indebolimento generale delle forze fisiche e morali, poco coraggio, scarsa intelligenza. Questo languore si è trasferito nei miei lavori, e il mio interminabile volume su Dante, che voi dovreste avere tra quindici giorni, non sarà terminato che per quella stessa data. Vi scorgerete tracce di questo malessere di cui parlo. Per il resto vi ringrazio di tutti i vostri buoni servizi e particolarmente dell’ospitalità che vorrete concedere a questo povero Dante. È accertato che durante la sua vita, e verso l’anno di grazia 1290, egli passò qualche tempo a Parigi; assisteva anche alle lezioni di un certo Sigier (il Cousin di allora), in rue du Fouarre. Ma mi pare che la capitale sia cambiata un poco da quei tempi là. Che d’altronde il poesta sia diventato assai vecchio e troverebbe scomodo andarci; aggiungete che la Sorbona attuale assomiglia poco a quella di San Luigi, e che Dante correrebbe il rischio di mal presentarsi, se fosse solo, alla porta del signor Leclerc, che non è un san Tommaso d’Aquino.

Per quanto lungo sia stato a causa delle circostanze che lo hanno ostacolato questo lavoro non avrebbe difettato di gradimento per me, se gli aiuti che avevo a Parigi non mi fossero qui completamente mancati. La nostra biblioteca è assai ricca; ma la nostra letteratura viva è particolarmente povera, e il ristretto numero di uomini istruiti che abbiamo, circondati da un certo sfavore nella società, obbligati a ripiegarsi su se stessi, ne contraggono selvagge abitudini che li rendono inaccettabili. Non ho dunque potuto trovare che presso il signor Noirot, nostro vecchio professore di Filosofia, i consigli di cui avevo bisogno. Per il resto, non c’è più quell’impulso, non c’è più traccia di quel calore generale, di quella vita esteriore che a Parigi mi sosteneva e mi trasportava. Credo che, se si fosse più forti di formazione intellettuale, meglio forniti di studi precedenti, questa fatica solitaria ne avrebbe il suo vantaggio, conserverebbe un’originalità che si perde in quella specie di contaminazione di stile a cui si è esposti a Parigi; vi si troverebbe un po’ più di quella austerità di pensiero, di quelle convinzioni coscienziose, che si intaccano, o per lo meno si arrotondano, si attenuano con l’attrito. Lo spirito si perfeziona meglio in mezzo a voi ma a condizione di usurarsi. Per quel che mi riguarda, non ho affatto ancora la tempra per lavorare solo; sono di cattiva compagnia, a quanto pare, poiché non mi annoio mai tanto come con me stesso. E ancorché i libri si dividano in terzine, in capo a qualche ora, la parola morta mi affatica. Io ho bisogno di sentire delle voci vive; a loro soltanto è possibile smuovere profondamente gli animi. Questa seduzione è così grande per me, che a parità di merito gli scritti di un autore vivente mi colpiscono infinitamente di più di quelli di una defunta celebrità.

Vi sono obbligato anche per l’interesse che avete accordato ai miei articoli. La ragione della lunga quarantena che essi subiscono è facile da capire. Sarei tuttavia addolorato se si smarrissero negli uffici dell’ “Univers”. Essi formano la metà di una piccola opera che avevo intrapreso sulla storia politica del Protestantesimo, dalla quale avevo ricavato molto piacere e i cui risultati mi avevano sedotto in modo paradossale. In verità, non potrebbe stupire mai abbastanza di quanto la storia, e in particolare quella degli ultimi tre secoli, sia ignorata; e per quali miracoli di tracotanza da una parte e di credulità dall’altra, le più impudenti menzogne siano passate in giudicato.

Affermo nondimeno che la mia impazienza per i vostri articoli non è minore di quella che ho per i miei. Vado a caccia delle F e delle L in fondo a tutti gli articoli dell’ “Univers catholique” e di ogni appendice dell’ “Univers”. La loro apparizione non mi sarebbe meno gradita di quanto non lo fu altre volte per quei buoni abbonati dell’abate Migne che presero le vostre iniziali per quelle del signor de Lamennais. Del resto compatisco tutte le vostre tribolazioni tanto più agevolmente in quanto io ne provo di simili. Come saremmo felici, Laperrière ed io, se potessimo dimostrarvi che vi trovereste meglio qui! Intanto, se Le Taillandier è sempre disponibile, ditegli che il cancelliere del nostro tribunale di commercio, avendo ultimamente perduto suo figlio, venderebbe volentieri la sua cancelleria: la cancelleria è molto lucrativa, e colui che la teneva è un uomo molto rispettabile che ha dato dignità alla carica di cui era rivestito. Se Le Taillandier volesse darmi la sua procura e le sue istruzioni, l’affare potrebbe prender corpo: Chaurand, che conosce un poco l’individuo, lavorerebbe anche per far riuscire la cosa. Veda dunque se l’offerta gli conviene e sappia che, venendo a stabilirsi tra noi, troverà tanti amici quanti ne lascerebbe a Parigi, e oso quasi dire: altrettanto buoni. Scusatemi presso di lui, il tempo non mi permette di scrivergli.

Ecco una lettera che ha l’aria di diventare mortalmente noiosa, non per me che mi lascio andare dietro la penna, ma per voi che non troverete in tutto ciò che ripetizioni di cose venti volte dette fra noi. Non varrebbe neanche la pena di costare 14 soldi alla vostra borsa e un’ora di lettura ai vostri occhi se non dovessi parlarvi a lungo della Società di San Vincenzo de Paoli. Ho visto con grande piacere Monsignor de Quélen rappresentato alla vostra seduta generale dai suoi Vicari generali, ed io sono sicuro che questo solenne riconoscimento produrrà qui il migliore effetto. Ma, al di fuori delle comunicazioni ufficiali, mi piacerebbe avere qualche informazione ufficiosa sulle cause che hanno impedito a Monsignore di assistervi lui stesso; vorrei sapere se voi sperate di averlo tra voi per il 19 luglio, ed infine se i Vicari generali hanno manifestato vera soddisfazione. Bisogna intendersi bene. Non è cosa saggia per esempio proclamare, come fa Lamache nel suo rapporto, che l’Arcivescovo di Lione ha formalmente approvato la Società, mentre invece si è solamente lasciato scappare una parola di consenso in una conversazione particolare. Non è possibile farsi illusioni, la Società ha incontrato diffidenze ovunque: se a Lione non è mai incorsa nel biasimo dell’autorità ecclesiastica, se pure alcuni preti venerabili l’hanno incoraggiata, tuttavia essa non è mai cessata di essere oggetto di vessazione da parte di molti laici, i pezzi grossi dell’ortodossia, padri del concilio in marsina e pantaloni a sottopiede, dottori che sentenziano fra la lettura del giornale e le discussioni da banco, fra la pera e il formaggio; gente per la quale i nuovi venuti sono sempre i malvenuti; per la quale tutto ciò che arriva da Parigi si presume sia perverso; gente che fa della propria opinione politica un tredicesimo articolo del Simbolo; che si appropria delle opere di carità come se fossero cosa propria e, mettendosi immodestamente al posto di nostro Signore, dice: “Chiunque non è con noi è contro di noi”. Voi non potreste credere le meschinerie, le villanie, le arguzie, i cavilli, gli affronti che quella gente, con la migliore fede del mondo, ha usato contro di noi. I più stimabili sono stati trascinati dalla folla, e abbiamo dovuto soffrire molto anche da parte di coloro che ci amavano. Del resto, non abbiamo da lamentarci quando abbiamo a che fare con un mondo in cui il signor Lacordaire è anatemizzato, il signo de Ravignan dichiarato initelligibile, l’abete Coeur sospetto e il signor Combalot testa calda.

Chaurand ed io, come principali fondatori e direttori dell’Opera, siamo stati costantemente in mezzo alla lotta, e questo ruolo ci stanca molto, rimane sempre un po’ di asprezza nello spirito e la carità soffre nelle conversazioni che si è obbligati ad avere a questo riguardo. D’altra parte, vi è una resposabilità legata alle nostre cariche, per modeste che siano: gli errori che si commettono sono doppiamente gravi quando possono ricadere sulle opere che si dirigono. I capi delle pie associazioni dovrebbero essere dei santi per attirare su di loro le grazie di Dio. Spesso mi chiedo come io possa osare, io così debole e cattivo, rimanere il rappresentante di un così gran numero di buoni giovani. È per questo motivo che aspetto il momento in cui mi sarà possibile scaricarmi della presidenza. Se Le Taillandier verrà qui, noi lo presenteremo candidato all’unanimità, poiché vi è, e questo forse è il solo bene positivo che abbiamo fatto, un estremo attaccamento dei membri di Lione per i loro amici, anche sconosciuti, di Parigi. Il signor Cauvin, della Conferenza di Saint-Sulpice, avendo trascorso alcuni giorni a Lione, è stato ricevuto, festeggiato dalla Conferenza Saint-Pierre, e ha potuto ritrovarcisi come fra i suoi colleghi abituali.

Ecco ora l’organizzazione interna che è stata costituita per il resto dell’anno. Accarias e Chaurand segretario e tesoriere generali, Arthaud presidente di Saint-Pierre, Laperrière presidente di Saint-François. Hanno costituito i loro uffici di presidenza con ottimi giovani della città che hanno assimilato molto bene l’originario spirito generale dell’istituzione. Con un consiglio di direzione formato da tali elementi, non posso fare di meglio che convocarlo spesso. In queste riunioni più familiari si propongono idee felici e si fanno accettare. Noi ora, al posto dell’Imitazione, leggiamo la Vita di san Vincenzo de Paoli, per meglio compenetrarci dei suoi esempi e delle sue tradizioni. Un santo patrono non è infatti un insegna banale per una Società, come un saint-Denys o un saint-Nicolas per un’osteria. Non si tratta nemmeno di un semplice nome onorevole sotto il quale ci si possa dare un buon contegno nel mondo religioso: si tratta di un modello che bisogna sforzarsi di realizzare, come lui stesso ha realizzato il modello divino di Gesù Cristo. È una vita che bisogna continuare, un cuore nel quale poter riscaldare il proprio, un’intelligenza nella quale si deve cercare una luce; è un modello sulla terra e un protettore in cielo, un duplice culto gli è dovuto, d’imitazione e d’invocazione. È d’altronde a queste sole condizioni, di appropriarsi dei pensieri e delle virtù del santo che la Società può sfuggire alle imperfezioni personali dei suoi membri, che può rendersi utile nella Chiesa e darsi una ragione d’esistenza.

San Vincenzo de Paoli, uno dei più recenti tra i canonizzati, ha un vantaggio enorme per la vicinanza del tempo in cui è vissuto, per la varietà infinita delle opere di misericordia che ha compiuto, per l’universalità dell’ammirazione che ha ispirato. Le grandi anime che si avvicinano di più a Dio ne traggono qualcosa di profetico. Non mettiamo in dubbio che san Vincenzo de Paoli abbia avuto una visione anticipata dei mali e dei bisogni della nosta epoca: non era un uomo da porre basi sulla sabbia, né da costruire per due giorni. La benedizione del quarto comandamento si posa sul capo dei santi; essi onorano quaggiù il loro Padre celeste, essi vivranno a lungo. Un’immortalità terrena è loro decretata per le loro opere. È per questo che gli Agostino, i Benedetto, i Bruno, i Francesco, che riposano da 15, 12, 8, 6 secoli nella polvere, non cessano di avere la loro posterità spirituale, i loro rappresentanti in piedi in mezzo alle rovine del passato. L’astro di san Vincenzo de Paoli, apparso più tardi all’orizzonte, non è certo destinato ad avere una missione meno lunga. Marciamo sotto il suo bagliore: onoriamo anche nostro padre nella persona di questo Patrono così degno d’amore e vivremo a lungo. Noi vedremo forse un giorno i figli della nostra vecchiaia trovare un riparo sicuro sotto questa istituzione della quale abbiamo visto i gracili inizi. Noi soprattutto, che viviamo nelle province, esulteremo di gioia nel poter assicurare ai nostri figli quella dolce ospitalità parigina che diede sicurezza alle nostre madri. Intorno a noi salirà, sempre crescente, l’onda della generazione cattalica e scorgeremo il momento in cui uscirà dagli argini per inondare e rinnovare la faccia della nostra povera patria. Grande ne è il bisogno. L’erba malvagia dell’egoismo non sembra forse moltiplicarsi senza fine? L’avarizia non assume forse, sotto il nome di economia, una maschera filantropica? In verità, io mi rallegro nel vedere in nome della filantropia, chiudere le torri (dei trovatelli) e serrare le porte degli ospedali. L’usurpatrice si tradisce da sé, si denuncia al buon senso pubblico del quale si è per tanto tempo abusato; bisognerà bene, presto o tardi, che ceda il posto alla sua sorella legittima, la santa Carità.

Ma per aiutare questi cambiamenti non abbiamo noi nulla da fare, nulla da cambiare in noi, nulla da rendere migliore? Io non so come la mia lettera vi sia giunta solo all’indomani dell’assemblea; credo sia stata una negligenza del fattorino o del portinaio. Vi sarete reso conto che era scritta appositamente in previsione della presenza di Monsignore. Bisognava dunque limitarsi a delle generalità, e io non avevo potuto metterci un certo numero di osservazioni che il consiglio di direzione mi aveva incaricato di trasmettervi. Incarico che vado ora ad adempiere.

1° Abbiamo interamente approvato la decisione che voi avete preso per ciò che riguarda il diploma, e l’abbiamo approvata per gli stessi vostri motivi.

2° Il sermone di carità, di cui mi avete così ridicolmente raccontato la storia, ha incontrato fra noi un’avversione generale. Abbiamo pensato che dei Parigini come voi dovevano accorgersi della banalità in cui il sermone di carità cadeva dopo un po’. Cosa poco produttiva perché essa è troppo frequente, poco edificante a causa dell’amor proprio per le opere, per le questue, e anche per i predicatori che essa mette in movimento, poco conveniente soprattutto per una Società amica della riservatezza, della semplicità, umile per dovere e per necessità di posizione. Se dunque un sermone viene predicato per i poveri di una parrocchia come a Saint-Merry, nel quale il curato incarica la Conferenza della distribuzione del denaro, niente di meglio. Ma far risuonare il nostro povero nome dall’alto del pulpito cristiano, è cosa che noi non vogliamo sentire: e il nome, la storia, i meriti della Società, essendo ben comuni a tutti i suoi membri, noi pensiamo che una singola Conferenza non possa sfruttare a dispetto dell’opposizione delle altre.

3° Il regolamento, redatto prima che noi avessimo provato la sventura di perdere alcuni dei nostri amici, non ha alcuna disposizione per ciò che riguarda i decessi. Questa giovanile imprevidenza della morte ha ricevuto triste smentite. Non si dovrebbe prendere qualche misura generale a questo riguardo? Per noi, considerando che le tre altre assemblee generali sono accompagnate da una funzione religiosa e che in effetti conviene riunirsi in un santuario, nello stesso tempo in cui ci si riunisce attorno a un tavolo, abbiamo stabilito che una messa da Requiem verrà celebrata tutti gli anni, il primo lunedì di quaresima, il giorno dopo l’assemblea, e che tutti gli associati vi assisteranno. Non sappiamo se voi avete la stessa consuetudine e, sembrandoci conveniente, francamente ve la proponiamo.

4° Sono incaricato di dirvi che si rimpiange l’interruzione di un’abitudine, introdotta l’anno scorso, in virtù della quale al resoconto si univa una circolare contenente delle istruzioni sui punti più suscettibili di interesse per la Società. Queste specie di epistole erano lette con rispetto e portavano spesso dei frutti nella pratica: avevano lo scopo di diffondere una felice uniformità nei costumi delle diverse Conferenze; esse non potrebbero essere sufficientemente rimpiazzate dalle osservazioni dei presidenti raccolte nel resoconto, ma necessariamente molto succinte a causa della redazione. Di conseguenza vi si chiede insistentemente il ripristino di questa corrispondenza che aveva qualcosa dei tempi apostolici, e che voi avete forse sospeso in seguito a quella troppo grande modestia, alla quale io faccio impietosamente la guerra.

5° Fareste bene a rileggere le copie del resoconto che gli errori del copista lasciano spesso initelligibili.

6° Le Conferenze di Lione, perdendo due dei loro membri che sono andati ad abitare in città vicine, hanno ripreso un pensiero che le aveva già più volte preoccupate: si tratta di riannodare al centro dell’associazione gli associati isolati dalla fatalità delle circostanze. L’utilità di questi legami è incontestabile; essi impedirebbero di cadere a coloro che hanno bisogno di essere sostenuti: preparerebbero da lontano gli elementi per formare più tardi delle nuove Conferenze. Due giovani di Parigi vanno a stabilirsi a Lille o a Montpellier: soli, non vi continuano più l’opera di san Vincenzo de Paoli. L’anno seguente due li vanno a raggiungere, e altri due l’anno dopo: essi sarebbero sufficienti per associarsi e lavorare insieme, se i primi due non si fossero raffreddati e lasciati andare, se i rapporti con gli antichi confratelli li avessero sostenuti, se essi avessero continuato a considerarsi uniti nell’intenzione, nelle preghiere, nei meriti con gli altri. Vedete dunque, voi che siete alla fonte, come si potrebbe moltiplicarne i canali. Il bisogno è segnalato, sta a voi soddisfarlo. A noi è sembrato che sarebbe possibile ai membri isolati: 1° continuare a fare del bene nel luogo del loro soggiorno; 2° unirsi con il pensiero e la preghiera dicendo una volta alla settimana l’orazione di san Vincenzo de Paoli; 3° scrivere una o più volte l’anno alla Società di Parigi, per rendere conto di ciò che hanno fatto.

D’altra parte, il segretario della Società registrerebbe queste lettere, e, in un breve rapporto che completerebbe la lettura delle corrispondenze della provincia, renderebbe conto delle opere particolari più interessanti. Tutti gli anni, in occasione del 19 luglio, si dovrebbe redigere a Parigi un sommario della situazione della Società, sia nella capitale, sia fuori; lo si farebbe stampare in un limitato numero di copie e lo si invierebbe alle Conferenze prima, poi ai membri isolati che avessero scritto e fornito loro notizie. Così ci sarebbe uno scambio di idee, di sentimenti, di consolazioni in tutti gli angoli della Francia dove fossero presenti i figli di san Vincenzo de Paoli; si raddoppierebbe la forza con il numero, e il merito con la perseveranza; la Società di Parigi non sarebbe più soltanto un luogo di passaggio da cui si uscirebbe qualche tempo dopo esservi entrati; voi non dovreste contare più di duecento antichi associati ora perduti; voi sareste il vertice di una piramide a larga base che raggiungerebbe le quattro estremità del paese; e la gioventù francese del XIX secolo avrebbe innalzato un monumento gradito agli occhi di Dio su questo suolo che la gioventù del secolo scorso aveva così oltraggiosamente profanato.

Infine, e qui io parlo a mio nome, ho appena sentito annunciare una petizione che si fima presso il signore de Lamartine contro la soppressione delle torri (dei trovatelli). Questa petizione scritta dal signor Giraud, è cattolica. Essa ha per scopo il ristabilimento di una delle più misericordiose opere di san Vincenzo de Paoli. Non sarebbe conveniente che tutti i giovani avvocati che fanno parte della Società, anche i giovani medici, competenti gli uni e gli altri in questa materia, si presentassero per firmare la petizione? Non è questo un omaggio da rendere alla memoria del nostro santo patrono e nello stesso tempo una buona azione da fare? Se non volete formularne voi stesso la petizione, fatela presentare da un altro.

Addio, ce n’è abbastanza; ormai dovete riconoscermi dalla mia prolissità, dalla mia avidità di cose nuove, dai mille altri difetti che io so bene di avere e che ho anche l’orgoglio di confessare, per paura di apparire troppo stolto fingendo di ignorarli. Mio caro amico, chi mi libererà da me stesso, se non Colui al quale chiediamo di liberarci dal male? Chiediamo insieme e otterremo. Chiedete per me nelle prossime feste, anche per mia madre, per tutti i miei cari e per il mio povero padre del quale abbiamo da poco celebrato il doloroso anniversario. Potete contare su una giusta reciprocità. Qui ci sono molti che vi amano. Non dimentichiamo neanche Le Taillandier, Lamache, Demante figlio, Boblet, Leprévost, Catrusso, Pessonneaux e tanti altri che voi vorrete salutare per noi. Il vostro amico.

A.F. Ozanam

Da Lettres, I, Lettres de jeunesse (1819-1840) n. 175

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